Auditorium di Casatenovo. 50 anni di cinema e teatro

Flags of Our Fathers

Flags of Our Fathers

Sabato 2 dicembre Ore 21:00
Domenica 3 dicembre Ore 16:00 e 21:00

Seconda guerra mondiale. Sono i giorni della sanguinosa battaglia tra le truppe statunitensi e quelle giapponesi per il presidio giapponese di Iwo Jima, isola sperduta con spiagge scure e cave di zolfo.

Regia Clint Eastwood
Ryan Phillippe Adam Beach
Jesse Bradford Jamie Bell

Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema (ACEC))

Giudizio: Accettabile, problematico, dibattiti ***

Una battaglia epocale, quella combattuta a Iwo Jima tra il 19 febbraio e il 26 marzo 1945. Gli americani ne escono vittoriosi, ma il successo costruito a carissimo prezzo (anche di vite umane)va evidenziato, ingigantito e propagandato il più possibile. Anche a costo di dare conferma a quanto diceva John Ford in un passaggio di "L'uomo che uccise Liberty Valance": "Tra la leggende e la storia, stampa sempre la prima". La bandiera, allora, e la fotografia: Eastwood, patriota senza retorica, non rinnega alcunché. Gioia e soddisfazione vanno di pari passo con dolori, frustrazioni, e anche con sotterfugi, manovre, bugie. In una narrazione di grande respiro, la guerra combattuta al fronte procede di pari passo con la guerra combattuta a casa, e gli eroismi con il fucile si ripetono nella vita quotidiana, per sopravvivere un'altra volta. Storia quindi, ma anche cronaca, sguardo affettuoso, compassionevole, partecipato. Un bel film del filone antibellico che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come accettabile, problematico e adatto per dibattiti.

Utilizzazione: il film é da utilizzare in programmazione ordinaria, e da recuperare in molte altre circostanze, per la su sincerità e capacità di descrizione 'veritiera'.

cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo Da Eastwood uno straordinario manifesto sulla brutalità della guerra. Dolente, tragico e senza tempo.

La guerra per Clint Eastwood non è una triste sinfonia dell’anima come per Terrence Malick de La sottile linea rossa. È una tragedia più complessa. Un’esperienza della quale uomini/soldati non si liberano più. È sangue, orrore, morte. È perdita di se stessi. È una tragedia della giovinezza: quasi tutti quelli che muoiono sui campi di battaglia non avranno mai la gioia di diventare prima adulti e poi vecchi. Flags of Our Fathers è per la Seconda Guerra Mondiale, raccontata dal cinema, quello che Gli spietati è per il western. Dissipata la nebbia della leggenda, restano i cadaveri, la crudeltà, la propaganda, l’uso che la politica e le ideologie fanno del mito dell’eroe e della frontiera. Flags è uno dei migliori film dell’anno e il più raffinato, emotivo, intelligente film moderno sulla guerra che ha spezzato in due parti il Novecento. Ispirato al romanzo di James Bradley (figlio di Johno uno dei protagonisti reali della storia) e Ron Powers, prodotto da Steven Spielberg e dallo stesso Eastwood, il film ricostruisce e decostruisce la sanguinosa ed cruciale battaglia di Iwo Jima. Conquistare quell’isola era ed è stato il passaggio obbligato per vincere la Guerra del Pacifico. Iwo Jima, su cui erano dislocati 22mila giapponesi, era la stazione di pre-allarme per la terraferma e consentiva alle difese antiaeree nipponiche di colpire facilmente i bombardieri americani. Lo sbarco sull’isola ha inizio il 19 febbraio 1945 e durante la sanguinosa battaglia, durata più di un mese, morirono 6821 americani e sopravvissero solo 1083 soldati giapponesi. Una carneficina. Le scene dello sbarco e di combattimento, nonostante il coinvolgimento produttivo di Spielberg, non somigliano nella violenza, nella coreografia delle truppe, nel dinamismo grafico e nella regia a quelle di Salvate il soldato Ryan, le immagini, con i colori desaturati, hanno la brutalità, l’asciuttezza nefasta delle vere foto d’epoca che sfilano nei titoli di coda del film (leggi l’intera recensione sul numero in edicola della Rivista del Cinematografo). (Enrico Magrelli)

La critica

"C'è una bella congiura di talenti all'origine di 'Flags of Our fFthers': Clint Eastwood regista, Paul Haggis (Oscar per 'Crash') sceneggiatore, co-produttore Steven Spielberg, che sulla seconda guerra mondiale aveva dato già il suo punto di vista in 'Salvate il Soldato Ryan'. (...) La prima parte del film che mette in scena lo sbarco degli americani sull'isola, è caratterizzata da una regia ampia e solenne, ma allo stesso tempo semplice e ad altezza d'uomo: nello stile di un John Ford, del quale certe inquadrature ricordano i documentari di marina girati proprio durante la guerra. Dove Clint si dissocia, implicitamente, dal grande predecessore è invece nell'atteggiamento di fronte alla leggenda. Ne 'L'uomo che uccise Liberty Valance' Ford sostiene che, ove la leggenda sia più bella della realtà, deve prevalere la leggenda. Lui, però, celebrava la nascita di una nazione, mentre Clint sconta il disincanto e l'amarezza di un'epoca che ha imparato a diffidare delle leggende. E non è difficile leggere in controluce l'allusione a Bush, quando spinge sul pedale del patriottismo per mandare gli americani a combattere guerre sbagliate. I soldati di Eastswood non si battono per una bandiera o un'idea astratta, ma per proteggere chi condivide il loro destino di sofferenza e di morte. Tutto interno alla tradizione umanista del cinema americano 'Flags of our fathers' ha il suo punto debole nella tendenza alla ripetitività e si smarrisce, a tratti, nei flashback a catena dislocati su troppi piani temporali. Però, il messaggio resta forte e chiaro." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 10 novembre 2006)

"E' il lato più vistoso del film: la propaganda. Quando quella foto finisce su tutti i giornali Usa, il governo piegato dallo sforzo bellico decide di usarla per una colossale campagna a favore dei buoni di guerra. Ed ecco i soldatini rimpatriati e spediti in giro per l'America tra feste, stadi e majorettes a ramazzare quattrini. Soffocando i sensi di colpa per i compagni rimasti a morire laggiù, e la vergogna per un titolo usurpato. Perché 'gli eroi in realtà non esistono'; e perché loro piantarono solo la seconda bandiera, a sostituire la prima, più piccola. Ma la prima foto era meno potente, inoltre quei soldati sono tutti morti. Così il ruolo tocca a loro. Con conseguenze devastanti specie sul soldato pellerossa. Protagonista occulto che prima assaggia il razzismo quotidiano degli americani. Poi, a guerra finita, scende tutti i gradini dell'emarginazione per morire povero e solo. Chissà, forse stringendo su di lui il film sarebbe risultato più emozionante. Così, tra flashback e insistenze, Eastwood appare meno potente del solito. Ma lascia il segno nelle scene di guerra, da non paragonare a 'Salvate il soldato Ryan' (Spielberg co-produce) poiché seguono un principio opposto. Là protagonisti erano pur sempre i soldati. Qui sono le cose, i cannoni, i mitra, o i blindati colpiti dai mortai, a dominare la scena. Gli uomini, già figurativamente, sono dettagli, teste mozzate, corpi travolti dai cingoli o abbandonati nell'immensità dell'Oceano. Prospettiva raggelante quanto, temiamo, esatta." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 10 novembre 2006)

"Un film solido, rifinito e a tratti anche spettacolare: eppure non all'altezza delle ultime opere di Clint Eastwood, ormai riconosciuto come uno dei capiscuola di Hollywood. 'Flags of Our Fathers' ('Le bandiere dei nostri padri') sceglie come protagonista la fotografia dei sei soldati che il 23 febbraio del '45 innalzarono la bandiera a stelle e strisce sul monte Suribachi a Iwo Jima. (...) Tralasciando l'aneddotica desunta dall'omonimo romanzo-verità, si nota subito come le fasi spettacolari, ancorché intense, paghino pegno allo Spielberg di 'Salvate il soldato Ryan', come le sequenze delle (vere) testimonianze dei reduci spezzino il ritmo del film e lo rendano spesso farraginoso e come gli attori scontino la mancanza di carisma. Eastwood è ovviamente in grado di giocare sui chiaroscuri psicologici - supportati a dovere dalla fotografia decolorata di Tom Stern -, ma il tema del cosa i padri hanno saputo trasmettere ai figli sembra appartenere solo in parte alla sua cifra poetica. Indeciso tra la mitologia collettiva e le catastrofi personali, il film trova l'empito dell'emozione solo nell'asciuttezza patriottica, negli scorci quotidiani e nei rendiconti del destino 'fuori scena'". (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 11 novembre 2006)

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