Auditorium di Casatenovo. 50 anni di cinema e teatro

Django Unchained - di Quentin Tarantino

Django Unchained - di Quentin Tarantino

Sabato 9 febbraio - Ore 21:00

Domenica 10 febbraio - Ore 16:00 e 21:00

OscarOscar

Miglior attore non protagonista a Christoph Waltz
Miglior sceneggiatura originale a Quentin Tarantino

La storia è quella di Django, uno schiavo affrancato che, sotto la tutela di un cacciatore di taglie tedesco, impara a diventare un bounty hunter a sua volta e parte alla ricerca della moglie, ancora schiava presso un perfido proprietario di una piantagione.

Regia: Quentin Tarantino

Interpreti: Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Kerry Washington, Tom Savini, Gerald McRaney, James Remar, Todd Allen, Don Johnson, Tom Wopat, James Russo

Sceneggiatura: Quentin Tarantino

Fotografia: Robert Richardson

Montaggio: Fred Raskin

 Biglietti esselunga Vieni al cinema alla domenica sera - a Casatenovo costa meno Prendi sei e paghi cinque - Tessere a scalare

Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)

Giudizio: complesso, violento

Tematiche: Cinema nel cinema; Denaro, avidità; Potere; Storia; Violenza

Sono passati almeno dieci anni da quando Tarantino ha cominciato a pensare di mettere il personaggio Django al centro di una storia. Le suggestioni originate dal film "Django" diretto da Sergio Corbucci (1965) con Franco Nero protagonista, sono lievitate nel tempo, di pari passo con il dichiarato amore per il western all'italiana, e per il cinema di 'genere' di casa nostra anni '60/'70. Nel prodotto finito (dilatato su 165'), questa dinamica gestazione si vede tutta, distribuita lungo un racconto abbondante, incentrato più sull'aggiunta che sulla sottrazione. Con indubbia abilità e grande capacità inventiva, Tarantino puntella il copione con la capacità di fondere gli stilemi dei Sessanta con i richiami della contemporaneità: da un parte ecco quindi ralenti e zoom usati senza ritegno come facevano Corbucci, Colizzi (fino agli occhi in primissimo piano, direttamente da Sergio Leone), dall'altra un montaggio teso e nervoso, e atmosfere da psicanalisi post moderna. A fare da collante la violenza, per il regista un marchio non eliminabile. Senza scavare nelle tante suggestioni che il testo rimanda, si può dire che, dopo una prima parte di prevedibile svolgimento, il tono si alza decisamente dal momento in cui si arriva nella Grande Casa, quando cioè entra in scena Di Caprio. Qui la dialettica drammatica si fa alta, robusta, convincente. Nell'affresco visionario, il finale tocca alla mattanza conclusiva, dove tutti muoiono tranne l'eroe e la sua donna. Fumetto, iperrealtà, fantasia debordante. Tarantino, come altre volte, è bravo e furbo: fa spettacolo mentre ripete se stesso. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come complesso e decisamente violento.

Utilizzazione: il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria, ben tenendo conto di quanto detto sopra. La violenza diffusa (talvolta ironica, talaltra molto dura, realistica e disturbante) impone di riservare la proiezione ad un pubblico adulto e in grado di prendere la giusta distanza dalla storia. Di conseguenza molta attenzione è da tenere per minori e piccoli in seguito, in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri supporti tecnici.

Django Unchained - di Quentin Tarantino

cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo ***** Tarantino non sfonda la frontiera del western, ma la assimila: operazione morale come Bastardi ma meno compatta

Pur essendo meno compatto e potente di Bastardi senza gloria, il nuovo film di Tarantino si rivela operazione assai conforme alla precedente, con la quale stabilisce un dittico ideale: anche in Django Unchained il cinema si fa demiurgo della storia, flashback alterato dentro un gesto paradossale, di chi guarda al passato non per riprodurlo di nuovo ma per produrne uno nuovo. Là il nazismo messo letteralmente al rogo dentro una sala cinematografica, qui il razzismo dell'America schiavista e bifolca preso a pallettoni da un "negro" che spara meglio di John Wayne. Intanto Tarantino annuncia di voler ampliare il disegno realizzando l'ultimo capitolo di un'ipotetica trilogia, Killer Crow, su un gruppo di soldati di colore dell'esercito US "fregati" dai loro commilitoni bianchi durante la seconda guerra mondiale.

Tornando a Django Unchained, va detto che le affinità con Bastardi sono anche compositive, essendo entrambi costruiti secondo le modalità di una satira menippea, genere da cui ereditano la difformità tra tema (serio) e tono (comico), la costante ricerca di un registro eccentrico - compito assolto in entrambi i casi dal personaggio di Christoph Waltz, latore di una logica rigorosa e di una prosopopea esageratamente forbita a fronte di un mondo che ha perso la prima e non capisce la seconda - e una struttura narrativa che attraversa tre piani - nella versione latina erano inferno, terra e paradiso - associati ad altrettanti stadi morali della Storia (in Django: schiavitù, prova, liberazione).

Proprio la dimensione profondamente satirica dell'approccio tarantiniano (evidente ad esempio nella sequenza dedicata al Ku Klux Klan) ha fatto storcere il naso a una bandiera del cinema afroamericano come Spike Lee, il quale ha sbrigativamente (leggi: senza nemmeno prendersi la briga di andare a vedere il film) liquidato l'intera operazione come offensiva per la memoria del suo popolo. Ora, Tarantino conferma anche qui una certa inclinazione alla cialtroneria, più di una remora a prendersi completamente sul serio (d'altra parte si riserva un cameo che non lascia dubbi a proposito), una propensione al divertissement capace sempre di tirare fuori il ridicolo dalla tragedia, ma assumere questi atteggiamenti come fossero ora una colpa ora una virtù ci sembra un modo tutto ideologico di negare al regista la possibilità di avere uno sguardo disinteressato e assai personale sul mondo. Morale (moralista?) è semmai il giudizio che ciascuno di noi decide di attribuire a questo sguardo.

D'altra parte Tarantino non fa nulla per nascondere il carattere fittizio degli eventi messi in scena. Il regista si riconnette alla tradizione del western regalandocene una versione stilizzata, da teatro di posa. Mentre il widescreen era stato il marchio di fabbrica del genere, a suggellare pure una politica dello sguardo (libero di muoversi davanti a un orizzonte da abbracciare, conquistare), qui Tarantino opta per obiettivi a focale media che rifiutano il canone rappresentativo/ideologico del western classico per misurare invece una distanza inedita, quella che correrebbe tra proscenio e platea in teatro. Ancora più interessante è la licenza che il regista si prende nei confronti della retorica del genere che ha funzionato come architesto mitico della nazione americana. Tarantino se ne appropria facendola lavorare al contrario: se il western ha saputo imporre un'immagine della Storia attraverso la forza immaginifica delle sue storie, Django è fin dall'inizio un racconto esplicitamente falso (lo dice Schultz/Waltz quando paragona la vicenda di Django a quella di un'antica leggenda teutonica) di un passato incontrovertibilmente vero. Prova ne sia che, a dispetto della assoluta inverosimiglianza dei caratteri e dell'intreccio, Tarantino e la sua troupe hanno scelto di girare in location tristemente note per essere state reali piantagioni dove lavoravano gli schiavi (come quella di Evergreen, dove esistono ancora gli alloggi per i "niggers" poi utilizzati dal film). E' una scelta che dovrebbe garantire un minimo di fiducia morale nell'operazione e metterci in guardia dalla tanto strombazzata etichetta ("omaggio al western") che molti hanno voluto appiccicare al film.

Più scolatico e meno interessante è invece l'altro ribaltamento cercato dal regista, quello iconico, per cui la leggendaria figura del cavaliere pallido è impersonata stavolta da uno schiavo di colore, senza contare quello più interno al suo cinema per cui Christoph Waltz passa dal ruolo di nazista di Bastardi a quello di paladino dell'uguaglianza razziale in Django.

Dello spaghetti western è rimasto il riferimento al titolo (al Django di Corbucci), un cameo di Franco Nero e poco altro. Completamente assente la vena elegiaca del maestro, Sergio Leone, non fosse altro perché in Tarantino la memoria non si configura come nostalgia di un mondo perduto (non potrebbe visto il tema), ma come mondo sempre compresente al nostro (la contemporaneità del non contemporaneo di cui parlava Bloch). Django Unchained dà vita a una serie di analessi in cui il protagonista vede i suoi infelici trascorsi qui e ora, senza che il film "marchi" mai questi momenti mnemonici. Il messaggio, checché ne dica Spike Lee, anche stavolta non potrebbe essere più limpido e morale: il passato alberga continuamente nel presente.

Confezione e attori "non protagonisti" sono impeccabili (meglio Waltz di Foxx e Samuel L. Jackson di Di Caprio). Dove l'operazione convince meno è nella durata spropositata (mezz'ora di meno avrebbe giovato) e - proprio per tutto quello che abbiamo detto - nella sua deliberata programmaticità che imbriglia il racconto togliendogli quella genuinità e vitalità che avevano caratterizzato in modo encomiabile Bastardi senza gloria. (di Gianluca Arnone)

Django Unchained - Jamie Foxx e Leonardo Di Caprio

La critica

"Non fosse un western sarebbe un romanzo di formazione. Con lo schiavo nero liberato dal cacciatore di taglie bianco che scopre una realtà sconcertante. Visto dalla parte dei dominatori, il mondo dello schiavismo fa ancora più schifo. Provare per credere: il «liberato» Django impara a sparare, a recitare, a soffocare i suoi sentimenti, a mandare a morte i fratelli senza battere ciglio. Una cosa sola non impara. A usare le parole come armi. A quello pensa il tedesco, modi soavi e pistole letali. Perché nel mondo «civilizzato» ci si uccide per un pezzo di carta o per una stretta di mano sbagliata. Tarantino retrodata di un secolo il «buddy movie» bianco/nero. Il vero pulp arriva solo nell'epilogo, lungo e esplosivo. Ma il meglio è nelle due ore precedenti." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 17 gennaio 2013)

"'Django Unchained', cioè scatenato, è esemplare della sensibilità, dello stile, delle doti di Quentin Tarantino. Dopo aver pescato qui e là nella sua conoscenza cinematografica enciclopedica e nella sua passione per il cinema italiano di genere, si sofferma sul western. Cioè il massimo di americano attraverso la lente deformante dell'incursione italiana operata quasi messo secolo fa da Leone e compagni. C'è un modello, il film 'Django' del '66 di Sergio Corbucci con Franco Nero nel ruolo di un reduce nordista vendicatore che fa strage di due intere bande grazie all'arma micidiale che trascina con sé nascosta dentro una bara. Pur partendo da lì e riusando molto materiale (a cominciare dalla ballata di Bacalov) Quentin non solo racconta una storia tutta virata sulla questione dello schiavismo, ma soprattutto (ri)dimostra una capacità di reinvenzione unica. Resta forse un po' banalmente da chiedersi, vista la posizione di primissimo piano del regista nel panorama mondiale di oggi, quanto la dotazione inventiva e spettacolare sia anche una chiave di interpretazione che superi le due ore e mezzo di botti e godimento." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 17 gennaio 2013)

"La grande marcia verso l'Ovest, le guerre indiane, la lotta al banditismo, la costruzione della ferrovia transcontinentale: erano questi i motivi al centro dell'epopea Western, un genere che il cinema italiano riportò a nuova vita sotto forma di «Spaghetti», riducendolo a un ironico teatrino di violenza e privandolo di agganci alla Storia. Al western nostrano si ispira Quentin Tarantino, il quale con 'Django Unchained' riprende il personaggio creato da Sergio Corbucci nel 1965, facendone uno schiavo nero, socio in affari di un bizzarro cacciatore di taglie tedesco che lo ha liberato dalle catene. (...) Nell'intero film il tema della schiavitù è trattato con la stessa disinvoltura a stravolgere la storia già mostrata in 'Bastardi senza gloria'. Ma si sa che il regista di 'Pulp Fiction' si preoccupa della filologia solo quando paga pegno alla cinefilia, inanellando dotte citazioni (fra cui l'apparizione in una breve scena del Django originario, Franco Nero) e strizzando l'occhio ai film di samurai come al cinema di Hong Kong. Tuttavia il suo giocare al B Movie è in qualche modo truccato: nella migliore tradizione di Hollywood, Quentin ha impiegato divi di prima fila e sviluppato una sceneggiatura che, se pur si compiace di scivolare nella goliardata e nel sadismo con tanto di vistosi spruzzi di sangue, è un tipico distillato del suo talento di scrittore succoso e divertente. In 'Bastardi senza gloria', film più riuscito, la formula funzionava meglio: però anche qui le quasi tre ore di proiezione scorrono piacevoli; e il cattivo possidente del Sud Leonardo di Caprio e, soprattutto, il tedesco compito di modi e rapido a uccidere cesellato da Christoph Waltz sono memorabili." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 17 gennaio 2013)

"Pur non eguagliando la solidità narrativa di 'Bastardi senza gloria', 'Django Unchained' di Quentin Tarantino, candidato a cinque Oscar, è un divertente spaghetti western in chiave pulp che come il 'Lincoln' di Spielberg punta l'obiettivo sullo schiavismo. Sanguinario (qualche scena è decisamente dura da digerire), sopra le righe, a volte troppo compiaciuto del proprio stile (...). Più riuscita nella prima parte, la pellicola non potrà che concludersi con una carneficina." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 17 gennaio 2013)

"È impossibile non amare un film che apre con i titoli di testa, ovviamente rossi, sulle note della celebre 'Django' composta da Luis Bacalov e cantata da Rocky Roberts per il film di Sergio Corbucci e si conclude con 'Lo chiamavano Trinità' di Franco Micalizzi mentre il suo eroe, il nuovo Django di Jamie Foxx, è diventato da schiavo barbuto un sofisticato eroe da blaxploitation anni '70 con occhialetto nero che lascia Candyland tra le fiamme. All'interno di questi due brani fondamentali per la storia degli spaghetti western, ci sarà di tutto, dagli omaggi a 'Mandingo' a 'The Legend of Nigger Charley', da 'Minnesota Clay' a 'Charley One-Eye', da 'The Bounty Killer' a 'Lo chiamavano King' da James Brown a Ennio Morricone, ma meno sostanza da spaghetti western di quel che i fan si aspettavano. 'Django Unchained' di Quentin Tarantino, esattamente come 'Inglorious Basterds' usava il maccaroni war movies, si serve di un genere molto amato, lo spaghetti western, e di tutti i suoi miti (...). Coi suoi americani stupidi, razzisti e analfabeti, i neri intelligenti e i tedeschi spiritosi e coltissimi, 'Django Unchained' è molto più profondo di quanto vi diranno. È molto più fuorviante e pieno di sorprese. (...) Inutile dire che gli attori sono tutti meravigliosi. Christoph Waltz domina il film, soprattutto nella prima parte, quella del viaggio, con una intelligenza impressionante. Jamie Foxx cresce piano piano e il suo ruolo diventa sempre più erculeo e poi shaftiano a Candyland. Leonardo Di Caprio e Samuel L. Jackson ci riportano in scena il mondo di Melville e di Poe, da 'Benito Cereno' a 'Gordon Pym', e si permettono grandi entrate e uscite teatrali rubando la scena a Waltz e Foxx. Franco Nero, il Django originale, viene giustamente omaggiato, ma ci sono grandi cammei di attori western e non di grande fascino, da Bruce Dern a Don Stroud, da Robert Carradine a Michael Parks. Tutti vecchi e bellissimi." (Marco Giusti, 'Il Manifesto', 17 gennaio 2013)

"(...) 'Django Unchained' di Quentin Tarantino (...) sulla scia di 'Bastardi senza gloria' fa ancora 'revisionismo': se nell'antecedente Hitler finiva bruciato in un cinema, qui il razzismo stelle & strisce viene sforacchiato dai colpi di un bounty killer nero. Camera alla mano, dunque, Quentin riscrive la Storia e fa la revisione allo schiavismo, mettendo al pubblico ludibrio un Ku Klux Klan ante litteram e facendo esplodere nel kapò Stephen le contraddizioni di ogni privazione della libertà. Forse si tarantineggia troppo per prendere sul serio lo spaghetti-western antirazzista, ma Quentin non scuoce: dialoghi fulminanti, un Sigfrido nero e la mitologia ultrapop." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 17 gennaio 2013)

Django Unchained -  Leonardo Di Caprio

"(...) siamo nel cuore dell'universo tarantiniano, tra dissertazioni filosofico-linguistiche e spaghetti western, in salsa blaxploitation. Ora, dopo 'Django Unchained' anche i più strenui detrattori di Tarantino dovrebbero dirsi almeno «persuasi» che la sua arte o mestiere sia arrivata a dei livelli ragguardevoli, soprattutto da quando il regista ha deciso di virare il suo solito pastiche nei luoghi di un'irriverente, quanto efficace, riscrittura storica. Pochi registi contemporanei come Tarantino hanno saputo dividere la critica, creando fazioni così opposte da scatenare una specie di guerra santa storico-cinefila. È una diatriba che prosegue dai tempi delle 'lene', tra chi accusa Quentin di solo plagio e chi vede nel suo citazionismo estremo una chiave di assoluta originalità. Nel mezzo non si poteva stare, anzi il mezzo non c'era. Ora i «neo-persuasi» tarantiniani dovranno portare la contesa su un altro campo e dimostrare che il Tarantino neo-storico sta riuscendo a far risaltare gli sfondi su cui poggiano i suoi raffinati origami. Prima 'Bastardi senza gloria' su una pagina immaginata ma mai realizzata della Seconda Guerra Mondiale, ora 'Django Unchained' sul riscatto degli schiavi neri pochi anni prima della Guerra Civile... Tarantino, nella sua maturità cinefila, prendendo spunto dai generi per poi spesso tradirli, sta riscrivendo una sua personale contro-storia impartendo una qualche lezione. Sempre divertendosi." (Dario Zonta, 'L'Unità', 17 gennaio 2013)

"È certo un paradosso quello di affidare la parte del 'buono', nel caso specifico di colui che uccide un crudele e odioso negriero, peraltro senza conti in sospeso con la giustizia, a un cacciatore di taglie del vecchio west; un cinico bianco che, a tu per tu col fuorilegge ricercato, nella classica scelta 'vivo o morto' decide sempre e solo per la seconda opzione. Ma con Quentin Tarantino non c'è da stupirsi: nel suo cinema la morale segue strade particolari, mostrando senso della giustizia piuttosto rozzo. Del resto la stessa idea di voler raccontare lo schiavismo in America attraverso un western, con una storia ambientata alla vigilia della guerra civile, rasenta l'eresia. Eppure il film 'Django Unchained' - nelle sale italiane dal 17 gennaio - tra situazioni surreali per violenza e comicità, vuole mantenere una sua credibilità a dispetto delle forzature; o forse proprio grazie a esse. Ma il risultato non è brillante. Stavolta Tarantino sembra limitarsi a una lettura politicamente scorretta della storia, con molte citazioni, al limite dell'autocelebrazione, ma poca creatività dal punto di vista cinematografico. Non avrebbe potuto esserci nulla di più lontano dalla realtà di un uomo di colore nei panni di un 'bounty hunter' nel pernicioso west, per di più proprio negli Stati in cui la schiavitù era legalizzata. Ma Tarantino va oltre, affiancandogli un cacciatore di taglie bianco; e unire l'improbabile coppia in un'impresa quantomeno originale: liberare la moglie del nero dalle grinfie di un negriero, proprietario della più infame piantagione di cotone nel Mississippi, chiamata Candyland, ma tutt'altro che dolce. Facendone loro malgrado degli eroi, imperfetti, ma per i quali è difficile non provare un briciolo di simpatia, nonostante tutto. La pellicola ha diviso la critica, perché effettivamente non convince del tutto, tuttavia sta avendo un buon successo di pubblico. Il quale sembra apprezzare questa libera rilettura pop dello schiavismo attraverso uno 'spaghetti western', genere amato e rilanciato da Tarantino, che col nome Django, con la grafica e la canzone dei titoli di testa, tributa un omaggio al suo ideale maestro, Sergio Corbucci, offrendo peraltro un cammeo a Franco Nero, l''originale' Django del 1966. Ma l'omaggio al celebre western italiano finisce qui, perché la storia, come detto, è ben diversa. (...) Christoph Waltz spumeggiante ma troppo simile all'ufficiale delle SS di 'Bastardi senza gloria' che gli valse l'Oscar (...). In 'Django Unchained' ci sono tutti gli ingredienti del cinema 'pulp' di Tarantino, di cui si può affermare, viste le quasi tre ore di film, sia un compendio enciclopedico. Soprattutto nell'esagerato profluvio di violenza e sangue, tanto che negli Stati Uniti dalle armi facili la pellicola è stata vietata ai minori di diciassette anni, mentre in Italia arriva senza alcun divieto. Come sempre il regista, maestro nel mescolare i generi ma qui debordante nei rimandi, pone particolare cura ai dialoghi, brillanti ed elaborati a un tempo, la cui ironia pare voler bilanciare furbescamente la brutalità visiva. Alcune situazioni sono fin troppo paradossali, persino grottesche. In sostanza, l'originale tocco di Tarantino, che in altre opere era riuscito ad elevare il suo cinema oltre la parodia, non sempre coglie nel segno. Anche se non mancano scene particolarmente riuscite, come la sequenza degli incappucciati antesignani del ku kux klan, imbranati ben oltre il ridicolo nel tentativo di dare una lezione definitiva alla strana coppia. Insomma, sorridere e provare al contempo a riflettere su cosa è stato. Ma un'operazione simile, peraltro inconsueta per il regista, può non piacere a quanti ritengono oltraggioso scherzare con un tema tanto serio e tragico (alcuni non hanno apprezzato l'avere rispolverato l'offensivo e sprezzante termine 'nigger'). Tuttavia anche questo è un modo per fare i conti con il proprio passato. E in questi mesi sembra che gli Stati Uniti siano incalzati a farlo proprio dal cinema, che presenta altre due opere sul razzismo, pur se con uno sguardo e una sensibilità decisamente diversi: 'Lincoln' di Steven Spielberg, già nelle sale, e 'Twelve Years a Slave' di Steve McQueen, in fase di ultimazione. D'altra parte Tarantino con il precedente film aveva affrontato il delicato tema della Shoah con lo stesso taglio ironico e controcorrente. Ma il risultato complessivo era stato cinematograficamente migliore: 'Bastardi senza gloria' è un capolavoro, mentre 'Django Unchained', pur essendo una buona pellicola (in corsa per cinque premi Oscar, tra cui quello come miglior film), non ha lo stesso fascino, la stessa ricchezza narrativa e creativa che aveva portato il regista a osare riscrivere la Storia, offrendo un finale davvero impensabile. Qui la revisione, parola peraltro eccessiva, è ben più limitata; e la stessa rivincita del protagonista alla fine si risolve solo una piccola vendetta personale, per quanto emblematica. Così come pure l'idea di sovrapporre la storia di Django e signora a quella del mito tedesco di Broomhilde, pur accattivante, non è geniale come quella di un Hitler che muore in un cinema della Parigi occupata per mano di un'ebrea e di un nero." (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 17 gennaio 2013)

Django Unchained - Jamie Foxx

"Non è il miglior Tarantino di sempre ma un suo film, pur discreto come questo, ne vale quanto tre di certi autori che sono di culto solo per alcuni recensori. Per questo, facciamo fatica a capire e perdonare, al Tarantino di 'Django Unchained', il tentativo, spesso evidente, di voler compiacere quella medesima critica, snaturando, in parte, quel suo modo «nerd» di fare cinema. Gli eccessi nei dialoghi (spesso estenuanti per lunghezza), soprattutto nelle scene dilatate con Di Caprio, non sembrano appartenere allo stesso autore de 'Le Iene' o 'Pulp Fiction'. Spezzano il classico ritmo tarantiniano ed affossano lo spettatore che si ritrova, in certi momenti, a guardare l'orologio. Peccato, perché il Tarantino sceneggiatore ha sempre fatto la differenza e anche in questo caso ha imbastito un signor lavoro camuffando da omaggio allo «spaghetti western» (con cameo del vecchio Django, Franco Nero) un film che, in realtà, prende di petto razzismo e schiavismo, senza banalizzarli. (...) Sia chiaro che 'Django Unchained' resta, comunque, un signor film, fin dalle scene iniziali che ricordano i Coen. Grazie ad un superbo cast nel quale spiccano Jamie Foxx (ma come hanno fatto a non candidarlo agli Oscar?) e Christoph Waltz (per fortuna, lui sì), sorretti da un Samuel L. Jackson assolutamente perfetto e da un Di Caprio che si muove a suo agio nei panni del villain." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 17 gennaio 2013)

"Piacerà, credo a quasi tutti. Il film ha quarantamila difetti, ma fanno tutti parte del gioco (in Tarantino la cinefilia, il pellegrinaggio ai luoghi sacri del cinema d'azione sono inevitabili, se non ci casca non è più Quentin). Innanzi tutto vorrei rassicurare lo spettatore domenicale. Il più onesto, il più scevro da pregiudizi (soprattutto a favore). Lo spettatore che non volle unirsi al coro unamime di lodi che accompagnò l'uscita di 'Bastardi senza gloria'. Che aveva sempre per il domenicale almeno mezz'ora di troppo, un inserto parigino che conciliava decisamente il sonno. Bene, 'Django' è parimenti lungo (due ore e venti) ma non ha cedimenti, non sei mai indotto alla pausa in toilette. E non puoi essere indotto perché specie nella seconda parte 'Django' è claustrofobo, ossessivo, come nell'opera prima di Quentin, 'Le iene'. Per essere un western, ovvero il trionfo del cinema all'aria aperta, l''Unchained' è dramma da camera. (...) I manierismi possono mandare in brodo di giuggiole i cinephiles ma disturbano lo spettatore di retto sentire. Che però sarà compensato debitamente del disturbo da alcune indimenticabili «tirate» tarantiniane." (Giorgio Carbone, 'Libero', 17 gennaio 2013)

Quentin Tarantino

C'era una volta...a Hollywood Bastardi senza gloria Django Unchained - di Quentin Tarantino - Locandina The Hateful Eight

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