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C'era una volta in Anatolia

C'era una volta in Anatolia

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Nel cuore delle steppe dell'Anatolia, un assassino cerca di guidare una squadra della polizia verso il luogo dove ha sepolto la sua vittima. Nel corso di questo "viaggio" emergono gli indizi di cosa è davvero accaduto.

Regia: Nuri Bilge Ceylan

Interpreti: Muhammet Uzuner, Yılmaz Erdoğan, Taner Birsel

Sceneggiatura: Ercan Kesal, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan

Fotografia: Gökhan Tiryaki

Montaggio: Bora Göksingöl, Nuri Bilge Ceylan

Durata: 2 ore e 45 minuti

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cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo ***** Ceylan prende la strada del giallo per scoprire che cosa resta della Turchia. Grande idea, svolgimento prolisso

C’era una volta in Anatolia è uno di quei film che rischiano di farvi sentire stupidi all’uscita della proiezione, quando l’amico cinefilo - o turco, se poi ne avete uno turco e cinefilo è la fine - grida al capolavoro e voi vi domandate, in silenzio, perché mai vi siete torturati di pizzicotti tentando di restare svegli per due ore e mezza. Perché tanto dura, il sesto film di Nuri Bilge Ceylan, cineasta turco di 53 anni che da tempo è tra i diletti del festival di Cannes: dopo aver sfiorato la Palma d’oro nel 2003 con il bellissimo Uzak, è tornato sulla Croisette con quasi tutti i suoi lavori e ha sempre riportato a casa qualcosa di prezioso. C’era una volta in Anatolia, in particolare, ha vinto nel 2011 il Gran Premio della giuria, secondo nel palmarès solo all’indiscutibile Tree of Life di Terrence Malick (e beffando il nostro adorato Kaurismaki, il cui Le Havre era secondo noi più meritevole).

C’era una volta in Anatolia ci ha ricordato da vicino Il sapore della ciliegia di Kiarostami. Anche qui, un interminabile viaggio in auto in luoghi spogli e impervi, anche se rispetto all’iraniano c’è un perché che va al di là della depressione del protagonista. Qui le macchine sono tre, e trasportano un commissario di polizia, un procuratore, un medico legale, alcuni poliziotti e un sospetto arrestato per omicidio. Sono alla ricerca dell’uomo ucciso da quest’ultimo, e sepolto da qualche parte nelle steppe anatoliche. Il presunto assassino dovrebbe trovare il luogo della sepoltura, ma come per il buon Bertoldo che non trovava mai l’albero giusto per impiccarsi, ogni sua indicazione si rivela fallace. Lo spettatore astuto capisce ben presto che le tre auto stanno girando a vuoto, e si attrezza per capire dove Ceylan sta andando a parare. Beh, avete indovinato: l’obiettivo è la Grande Metafora. Gli uomini alla ricerca del cadavere sono la Turchia moderna (la legge, l’ordine, la scienza) divisa fra tradizione e globalizzazione; il morto introvabile è il retaggio di un passato violento, il simbolo di una fragile democrazia costruita sui soprusi. Quando poi la salma viene esumata, gli uomini della legge sono costretti a trasportarla nel bagagliaio di una delle auto, scendendo in qualche misura allo stesso livello dell’assassino.

Tutto questo è molto giusto, molto bello e lievemente noioso. Il film si svolge quasi totalmente di notte, in zone di selvaggia bellezza resa per lo più invisibile dalle tenebre. I lunghi dialoghi sono serrati e qua e là estenuanti: Ceylan volutamente divaga (ad un certo punto, 10 minuti 10! di dialogo su quale sia lo yogurt più buono) per comunicare la mediocrità burocratica dei personaggi. È un film più importante che bello, un documento politico-etnografico più che un racconto, basato su un’idea molto forte in cui però lo svolgimento è prolisso e la sceneggiatura non è all’altezza della regia. Ceylan ha sempre confessato il suo amore per Yilmaz Guney, il grande regista-attore costretto per buona parte della sua vita a dirigere i propri film dal carcere, per interposta persona. C’era una volta in Anatolia avrebbe potuto, effettivamente, essere un film di Guney: sarebbe durato mezz’ora in meno, sarebbero successe più cose e avremmo risparmiato sui pizzicotti. (Alberto Crespi)

La critica

"Con pochi mezzi, una trama semplice, un gruppo di attori formidabili quanto sconosciuti, almeno fuori dalla Turchia, Nuri Bilge Ceylan confeziona un film che ha il respiro profondo della grande letteratura. Il titolo è un omaggio al Sergio Leone di 'C'era una volta il West' e 'C'era una volta in America'. Ma anche le straordinarie facce dei protagonisti, la forza epica del racconto e la potenza delle immagini rimandano al cinema del grande maestro. Un anno fa a Cannes il film di Ceylan ha ottenuto il gran premio della giuria, ma avrebbe di sicuro vinto la Palma d'Oro se non fosse capitato nell'anno del capolavoro di Malick, 'L'albero della vita'. Il viaggio nella notte turca, fra strade e colline tutte uguali, ma sentimenti che cambiano ogni volta, è una metafora dei limiti della vita e della conoscenza. I dialoghi che s'intrecciano fra uomini diversi per cultura, estrazione sociale e psicologia, sono degni di un racconto di Anton Cechov. L'avvio è quasi sempre banale, semplici chiacchiere per ingannare l'attesa fra una tappa e l'altra. Ma attraverso le parole, i ricordi, i piccoli gesti, questo pugno di uomini perso in una natura antica e indifferente si scompone e ricompone ogni volta, intreccia alleanze e ordisce strategie, prevarica e subisce. II delitto è già compiuto fin dal principio. Ma in realtà pietà e violenza attraversano l'intera storia, quasi tutta al maschile, sotto lo sguardo muto e misterioso delle donne. La più emozionante sequenza del film, da antologia del cinema, è il silenzioso passaggio della stupenda figlia del sindaco di un villaggio. (...) Ceylan è uno dei pochi veri geni del cinema internazionale, il direttore della fotografia Gokham Tiryaki è un talento unico, gli attori sono semplicemente immensi, da Muhammet Uzuner (il medico) a Yilmaz Erdogan (il commissario) a Taner Birsel (il procuratore). Non sono contemplati né inseguimenti né sparatorie, nessun effetto speciale o costumi costosi, furbeschi colpi di scena per agganciare l'attenzione dello spettatore e altre ruffianerie da mestieranti, ma quando l'avevo visto a Cannes, in versione originale turca con sottotitoli, non avevo trovato un solo minuto di noia. Figurarsi nella versione doppiata (molto bene) che permette finalmente di guardare tutto il tempo i volti degli attori e di ammirarne ancora di più la miracolosa recitazione. In poche parole, il più bel film in circolazione nei nostri cinema." (Curzio Maltese, 'La Repubblica', 15 giugno 2012)

"Quattro uomini, tre auto, una distesa di colline brutte tutte uguali. E la notte, una notte che non finisce mai e che vi entra dentro fino a farvi perdere ogni riferimento. Come succede ai personaggi del film, un poliziotto, un assassino, un medico, un magistrato, che impareremo a conoscere poco a poco, uno dopo l'altro. Senza saperne mai più di loro sull'intrigo che li unisce. Ma scoprendo per così dire in diretta, insieme a loro stessi, la verità sulle loro vite. Ovvero su quel viluppo di contraddizioni, debolezze, occasioni mancate, che li ha portati fin lì. Come in un romanzo di Simenon, incalzante e spietato, ma scritto con i volti e con la luce oltre che con le parole. Diretto dallo straordinario regista di 'Uzak', 'Le tre scimmie', 'Il piacere e l'amore', Gran Premio della Giuria a Cannes nel 2011 (ma meritava la Palma al posto di Malick), 'C'era una volta in Anatolia' è un film di rara potenza. Un «viaggio al termine della notte» che richiede una certa dose di pazienza per essere apprezzato, ma ripaga lo spettato re con emozioni complesse e durature come al cinema se ne incontrano di rado. (...) Ci troviamo in una strana terra di nessuno, fra Dostoevskij e Cechov, dominata dal sentimento della fine e della vanità. Niente di letterario però. Fotografo prima che cineasta, Ceylan sa far sorgere l'universale dal triviale (tutto quel parlare di cibo e di soldi non è un caso) e il sublime dal sordido (la bellissima ragazza che appare dal nulla, come in un Vermeer o un Rembrandt). Costruendo un mondo arcaico e insieme moderno, in cui l'ultimo serial tv coesiste con pratiche e mentalità ottocentesche. E mentre qualcuno scava, qualcuno scrive, qualcuno filma, la ricostruzione di quel delitto ci porta dalla notte più nera alla luce più abbagliante. Senza che sia mai possibile dire se ci abbiamo guadagnato o no." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 15 giugno 2012)

"Dal Festival di Cannes 2011, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria arriva (...) 'C'era una volta in Anatolia' del turco Nuri Bilge Ceylan, insolito thriller che mette in scena la lunga e difficile ricerca di un cadavere (...). Il viaggio, che metterà lo spettatore nello stesso stato d'animo dei personaggi, è anche un modo per penetrare le contraddizioni di un paese diviso tra moderno e arcaico." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 15 giugno 2012)

"Non fidatevi delle critiche colte, né tantomeno del Gran Premio della giuria al Festival di Cannes 2011. Questo film è un pacco sensazionale, parente stretto nella trama vuota e tartarughesca di 'll sapore della ciliegia', manco a dirlo Palma d'oro del '97." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 15 giugno 2012)

"Una notte infinita nell'Anatolia dei sentieri e dei misteri alla ricerca di un cadavere. Ad animarla un manipolo di umanità imperfetta e dunque irresistibile. Con un film di cinema puro celebrato dal Gran Prix a Cannes 2011, Nuri Bilge Ceylan si conferma il migliore esponente della sua generazione, cantore di una Turchia contaminata per radici e contraddittoria per modernità, capace di stupori opposti. Come opposti sono i suoi personaggi di quest'ultima fatica, apparentemente nemici (...) ma nella realtà complici di esistenze irrisolte. Potente e poetico insieme, lo sguardo di N.B. Ceylan non vacilla mai, mirando dritto alla costante reinvenzione di un'arte che, anche grazie al suo talento, ci rassicura essere viva e vitale." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 14 giugno 2012)

I film della stagione 2012 / 2013


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