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On the road - di Walter Salles

On the road - di Walter Salles

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Adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Jack Kerouac del 1957, considerato la bibbia della beat generation. Dopo la morte di suo padre, Sal Paradise, un aspirante scrittore di New York, incontra Dean Moriarty, un giovane ex detenuto. I due legano immediatamente. Decisi a non voler fare una vita mediocre, si mettono in viaggio e affronteranno un'odissea fisica e emotiva che cambierà loro la vita. Assetati di libertà, scopriranno il mondo, gli altri e se stessi.

Regia: Walter Salles

Interpreti: Sam Riley, Garrett Hedlund, Kristen Stewart, Kirsten Dunst, Viggo Mortensen, Amy Adams, Tom Sturridge, Steve Buscemi

Sceneggiatura: Jose Rivera

Fotografia: Eric Gautier

Montaggio: François Gédigier

Musiche: Gustavo Santaolalla

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cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo ***** L'ossessione di Salles per il cinema made in USA: in Concorso con un cast all-star ma senza incidere

Walter Salles ci è ricascato. A cinque anni di distanza dal poco felice I diari della motocicletta - nel quale il viaggio di formazione umana e politica del giovane Ernesto Guevara veniva trasformato in un romanzetto rosa - il brasiliano porta in Concorso a Cannes la sua ultima fatica, On the Road, adattamento per lo schermo del celeberrimo romanzo firmato da Jack Kerouac, rispettivamente testo fondativo e figura di riferimento della cultura beat oltre che vicenda artistica tra le più considerate del secolo ventesimo.

Si scrive “fatica” perché alla fase finale della produzione del film, Salles ci è arrivato in due anni durante i quali molte tegole gli son cadute in testa e molti bastoni gli si sono incastrati tra le ruote, a cominciare da un faticoso casting pieno di colpi di scena e un budget instabile, più volte consistentemente ridotto nel corso della preparazione.

Nonostante tutto On the Road concorre ora alla Palma d’Oro e lo fa anche in grazia di un cast, sulla carta, ben assortito e non privo delle star necessarie a qualsiasi scalata al successo internazionale (basti citare tra gli altri Viggo Mortensen e Kirsten Dunst). Basta però una visione distratta dei primi minuti per capire che il gruppo degli interpreti - e l’uso che ne fa il regista - è tutto tranne che uno dei punti forti del film e che Salles incappa qui ancora una volta in un vecchio vizio del passato. L’errore che Salles seguita a commettere sta tutto nella sua apparente ossessione - perniciosa - per il cinema statunitense come modello da imitare, ossessione che annulla e sostituisce quella sana e necessaria per il cinema tout court. La forza e l’identità caratteristica del romanzo d’origine sono azzerate da un lavoro di adattamento che usa la letteratura come riserva di pezzi di racconto, di aneddoti, di ruoli, di personaggi. Così non solo il film resta impermeabile e indifferente allo stile letterario con il quale avrebbe dovuto mettersi a confronto, ma si spinge oltre, disarticolando l’immaginario del romanzo, smantellandone le immagini dall’interno.

Salles si concentra invece sulla ricostruzione di uno stile ridotto a luogo comune, a fatto di gusto: l’abuso di sigarette, di alcol, di droghe, il sesso praticato istintivamente, “liberamente”, la scrittura come momento esistenzialmente, oltre che artisticamente, rilevante - solo per citare una lista grossolana di alcuni motivi tipici - vengono assunti dal regista nel film alla stregua di tic irriflessi, di coloriti aneddoti, di elementi d’arredo. La narrazione inevitabilmente si riduce a messa in serie di scene e dei personaggi non restano che ombre in movimento perché Salles si concentra sulla confezione di un’illustrazione, sintetica, complessiva, omogenea, compiuta, tralasciando d’instillare nel film un principio dinamico-analitico fondamentale: l’istanza di uno sguardo. (Silvio Grasselli)

La critica

"È stato uno dei romanzi del '900. Non sarà uno dei film del muovo millennio. Eppure le premesse c'erano tutte. Da quando uscì, nel 1957, a quando nel 1978 Coppola ne comprò i diritti (ma lo scrittore propose a Marlon Brando di portarlo sullo schermo già a fine anni 50), 'On the Road' di Jack Kerouac ha modellato l'immaginario di generazioni di lettori e registi. Trapassando quasi per via alchemica in tanti di quei film che l'adattamento vero e proprio (...), firmato dal brasiliano Walter Salles, arriva sugli schermi un po' sfiatato. Anche perché Salles fa un lavoro straordinario sui paesaggi, cerca disperatamente di distillare un equivalente della prosa di Kerouac a colpi di jazz e effetti di montaggio, arruola un cast da sogno. Ma alla fin fine si rifugia in uno stile di racconto medio, rassicurante, grazioso, che ha davvero poco a che fare con il miscuglio inebriante di sesso, droga, disperata esplorazione del proprio paese e del proprio Ego che faceva la forza magmatica del romanzo. Fra tanti personaggi, spiccano per inadeguatezza la virginale Kristen Stewart, e per forza e inquietudine il poco noto Garrett Hedlund, il migliore in campo nei panni dell'insaziabile Neal Cassady." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 11 ottobre 2012)

"Il progetto caro a Francis Coppola comincia a prendere corpo alla fine degli anni Settanta quando il regista, allora impegnato nella monumentale impresa di 'Apocalypse Now', acquisisce i diritti perpetui del libro. In realtà, tra verità e leggenda, lo stesso Kerouac già all'indomani della prima pubblicazione del 1957 avrebbe concepito un adattamento da mettere nelle mani di Marlon Brando, secondo i suoi auspici compratore dei diritti e depositario del ruolo carismatico di Neal Cassady/Dean Moriarty. (...) Il racconto di quei deliranti vagabondaggi contiene tutti i veri amici di Jack e Jack stesso ma con nomi cambiati. Jack è Sal Paradiso, Neal è Dean Moriarty, Allen Ginsberg è Carlo Marx, William Burroughs è Old Bull Lee. Salles ha tentato di ricreare più che restituire - gliene va dato atto - la dimensione febbrile e bruciante di un modo di vivere e di scrivere, ma il suo stile sovreccitato non basta a risparmiare il risultato dal museo delle cere, dalla celebrativa passerella vintage, dall'accumulo di 137 minuti che rincorrono un esito irraggiungibile e non appassionano, malgrado la profusione di mezzi e la volenterosa dedizione dei partecipanti." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 11 ottobre 2012)

"La generazione che si è riconosciuta in Kerouac, nella Beat generation, non so quanto ritroverà di quella ragionata rabbia nel film impeccabilmente patinato di Salles raccontando dal 1948 l'incontro di Sal (l'autore) con l'amico Dean (Neal Cassidy), i loro eccessi sentimentali e chimici, sesso, droga, velocità. C'è un buon cast, la soffusa malinconia dei vinti, paesaggi hopperiani, delusioni a tre dentro e fuori dal letto, ma mancano genio e sregolatezza, presenti invece nell''Urlo' su Ginsberg." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 11 ottobre 2012)

"Delude anche 'On the Road' di Walter Salles, dal romanzo di Kerouac, padre della Beat Generation. Se il film ha il merito di non mitizzare le icone della controcultura americana, mettendo in scena il dramma di una gioventù bruciata da alcol, droghe ed eccessi, dall'altra è troppo convenzionale per la magmatica materia letteraria da cui parte." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 11 ottobre 2012)

"Six, sax & sex. Sei gli angeli che rivoluzionano la letteratura Usa alla fine degli anni 40: Kerouac, Ginsberg, Burroughs, Ferlinghetti, Gary Snyder, Diane di Prima, e gli altri figli beat di Thoreau e Whitman, scrittura di confine, sempre mutante, tra ciò che si sa e ciò che non si conosce ancora. (...) 'On the road', il ritratto dei giovani ventenni che rifiutano il lavoro sotto il capitale e preferiscono correre per il paese, tra microcriminalità e vagabondaggio. (...) L'operazione è internazionale, e funziona. Ma le avventure ai confini di se stessi del trio e compagnia, sono intrappolate dalla struttura canonica «inizio-centro-fine» senza sbandare mai, perché viene privilegiato l'asse «ricerca dell'identità-paternità dei due buddies», Sal (che ha appena perso il padre) e Dean (che non lo trova), cercando di dare maggiore autonomia psicologica, rispetto al romanzo a torto considerato maschilista, a donne che invece la perdono. E il tono, alla fine, è un filo populista quando Sal, l'intellettuale newyorchese, a libro finito, chiude l'amicizia con Dean, l'amico poeta proletario vampirizzato, il perfetto «neo hobo» che ha passato un terzo della vita in carcere, un terzo della vita da sballato e un terzo in biblioteca). Solo per far capire che Kerouac appoggerà i crimini di Nixon in Vietnam... Sarà perché il suo sommo desiderio segreto era festeggiare 'On the road' il film, con lo champagne a Hollywood. Alla memoria ce l'ha fatta." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 11 ottobre 2012)

"(...) volonteroso, brutto, fuori tempo massimo. Forse 'On the Road' andava realizzato negli anni '50, con o senza Marlon Brando. La carica dirompente del romanzo sarebbe rimasta intatta. Nel XXI secolo le trasgressioni sessuali e anfetaminiche dei personaggi non fanno più una grande impressione. Una cosa, a Salles, va però riconosciuta: il sincero amore per il progetto. (...) Se nessuno è riuscito a scrivere una sceneggiatura decente per 30 anni, e se un regista come Coppola si è tirato indietro, un motivo ci sarà. E il motivo è che la scrittura di Kerouac sembra cinematografica, ma non lo è affatto. Kerouac scrive mimando il ritmo del jazz, e 'On the Road'/romanzo è tutto atmosfera, paesaggio e - appunto - ritmo. Per fare un film non sperimentale ci vuole anche una trama. Perfino 'Easy Rider' (che in fondo è la vera versione 'New Hollywood' di 'On the Road') ne aveva una. 'On the Road', no. In 2 ore e 20 minuti non accade quasi nulla, e il film rischia seriamente di ridursi alle avventure poco interessanti di giovani «scoppiati» e antipatici. Occasione perduta. Ma se vedendo il film qualcuno uscirà di casa, e comincerà a camminare (come fa Sal nella prima sequenza), sarà comunque un bel risultato." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 11 ottobre 2012)

"'On the Road' di Jack Kerouac ha significato troppe cose, per milioni di giovani di diverse generazioni, e per me in particolare, per poter stare in modo soddisfacente dentro due ore di film. È il romanzo di formazione di un giovane scrittore, letto da me quando anche il mio romanzo di formazione - quello non scritto se non dentro l'anima - cominciava a fare capolino tra le nebbie non ancora dissipate della preadolescenza. Ma è anche qualcosa, molto di più. (...) 'On the Road' m'insegnò che la Beat generation era sorta ben prima dei Beatles, che il suo racconto apparteneva a un mondo diverso da quello, urbano e industriale, nel quale ero cresciuto io, e nel quale erano cresciuti i musicisti che amavo. La beat generation non aveva nulla a che fare nemmeno col Sessantotto, con lo spontaneismo alla moda in quegli anni, con i movimenti americani come gli hippies. Anche la New York che sarebbe divenuta il mito ossessivo delle generazioni successive, fino a oggi, nel romanzo di Kerouac (...) è come un'apparizione che si materializza dal fondo della campagna: inusuale. Così inusuale che gli eredi di quella storia non esistono più, e quelli che dicono di esserlo (pochi) sono, più che dei ruderi (...) delle caricature di qualcosa che non è mai esistito. (...) Grazie a 'On the Road' non ho mai creduto nel successo, e nemmeno nei soldi e nel potere. In compenso, ho imparato a credere nella musica, nella poesia e nel mistero della bellezza. Il film di Walter Salles tratto dal libro di Jack Kerouac è troppo poco rispetto tutto questo. La figura dell'io narrante, Sal Paradiso, è troppo schiacciata sul modello degli aspiranti scrittori che affollano tanti e tanti film dei nostri giorni, mentre il protagonista Dean Moriarty (che per me rimane una figura di santo) pur amata dal regista e dall'attore Garrett Hedlund, rimane troppo episodica per poter comunicare la profondità del personaggio letterario. Anche il paesaggio americano, ben fotografato ma anch'esso troppo frequentato dagli obiettivi americani (...), non dà molte emozioni, tranne forse quando il gruppo attraversa nella nebbia il Golden Gate sul celebre ponte. Restano i musi, le prore delle splendide automobili americane dell'epoca (...), che restano ad ogni buon conto non solo le più belle automobili mai fabbricate, ma anche (in assenza di altro) un'ottima ragione di sopravvivenza del cinema in generale." (Luca Doninelli, 'Il Giornale', 11 ottobre 2012)

"Piacerà ai nostalgici della «beat generation» che hanno riservato al film, una calorosissima accoglienza a Cannes. E che entreranno probabilmente in conflitto con nostalgici «puristi». È vero, è tutto molto levigato, tante asprezze sono attenuate. Però Salles (che in 'Diari della motocicletta' spiegò molto bene perché Guevara divenne il Che) qui è altrettanto chiaro a raccontare come si diventa un Kerouac." (Giorgio Carbone, 'Libero', 11 ottobre 2012)

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